La prima volta che vidi un tuareg, anzi due tuareg, fu sfogliando un libro di antropologia dedicato a questa etnia. Nella foto i due erano accovacciati, l’uno di fronte all’altro, in posizione aggressiva, completamente incartati da una stoffa lucida scura, che aveva tinto le loro mani ei loro piedi (la foto era in bianco e nero) Sembravano due personaggi di “Guerre stellari” proiettati in un deserto lunare. Ricoperti da un casco multistrato lucido che nascondeva tutta la parte facciale.
La loro posa, solo apparentemente tranquilla, ne faceva, in realtà, due proiettili pronti allo scatto.
Ne fui letteralmente affascinata. Mi sembrava di assistere a un episodio di una Chanson de geste.
Ma esistono davvero oggi questi guerrieri?
Tutto partì da lì. L’anno seguente ero in Algeria. Le nostre valigie, per un disguido, erano rimaste a Roma,cosa che nonostante le imprecazioni, ci diede modo di perlustrare in lungo e in largo i vicoli della capitale. Nonostante la trascuratezza e il sudiciume fummo affascinati dalla quella città dove si incrociavano moduli vitali appartenenti alle più varie culture e dove la popolazione risultava così gentile e disponibile. Ne fui così affascinata che da allora quasi ogni anno Algeri fu la mia meta preferita.
Recuperati i bagagli ci imbarcammo per Tamanrasset. Lì avremmo visto finalmente i Tuareg.
All’ aeroporto ci accolse una scena animata in cui si agitavano le sagome degli antichi guerrieri, che senza rinunciare all’inalterata altezzosità ed eleganza, avevano scelto di sottostare ai dettami ineluttabili dell’economia, riciclandosi in agenti turistici. In attesa delle prede europee, non sfoderavano più le temibili armi tradizionali, bensì l’arma della seduzione folkloristica fatta di sorrisi che sfoggiavano calando e sollevando il bavaglio della lorochèche.
Da lì cominciò il nostro viaggio tra dune avvallate o altissime e resti di montagne dove tutto era in disfacimento e sbriciolato. Si procedeva poi tra alte falesie, a volte colossali. I tuareg non erano affatto come i miei guerrieri neri, anzi erano gioviali e raccontavano un sacco di storielle inframezzate da risate fragorose e facevano pure discretamente la corte alle ragazze del gruppo.
Insomma, lì a Tamanrasset se la passavano bene col turismo. Non invece in altre zone dell’immenso Sahara dove nessun turista aveva mai messo piede e dove la siccità aveva eroso quelle povere erbe che servivano da sostentamento al bestiame. Così molti si erano decisi ad emigrare. Erano andati per lo più in Francia presso parenti, chi non aveva parenti si era accalcato negli accampamenti gestiti dall’esercito algerino. Gli occupanti non erano solo Tuareg ma gente proveniente dalle più diverse nazioni africane e medio-orientali cacciate da guerre intestine, razzie e saccheggi.
L’Algeria dovrebbe essere per i migranti un paese di transito. Accordi internazionali la sovvenzionano con importanti aiuti finanziari per la gestione dei rifugiati. Ma lo Stato invece di far partire i migranti, li bloccava nei campi affinché il Paese usufruisse degli aiuti statali e internazionali dirottati poi strategicamente verso forme di investimento e di appropriazione.
Fra tutti questi cercatori di migrazione c’è un gruppo tuareg consistente che viene dall’Air e che è riuscito a trovare un luogo adatto a loro dove si sono perfettamente integrati, Pordenone, dove già dal 2005 si è stanziato un gruppo che ha trovato con facilità casa e lavoro. I Tuareg ovviamente sono aumentati con gli anni e ora partecipano attivamente alla vita sociale della città organizzando anche serate musicali e di poesia.
Molti oggi sono i migranti che conosciamo, molti quelli non conosciamo, come queste popolazioni Tuareg costrette ad abbandonare le loro terre causa la progressiva desertificazione che distrugge i pascoli, rinsecchisce gli ouadi e insabbia i pozzi. Questa migrazione passa sotto silenzio mediatico e solo poche riviste a carattere missionario o specializzate nel continente africano vi accennano.
I Tuareg adorano la poesia. Non ne possono fare a meno. Nelle serate fra amici, improvvisano con estrema facilità canti di vario tipo. Normalmente esaltavano la donna o fatti guerrieri. Ma ora, donna a parte, tutto è cambiato. Ora si canta la diaspora, la solitudine, il deserto e il cielo perduti.
Mi sono permessa di fare un omaggio a questo popolo, ancor oggi profondamente guerriero dedicando loro una poesia, tratta dalla mia raccolta “NOMADES”: “Kai! malhad!Tutto bene!”
Questa poesia ricorda il loro esodo. La durezza del lasciare la propria terra, la consapevolezza che non ritroveranno più nulla al loro ritorno, se torneranno. Il loro fuggire, il loro sciamare verso altre terre dove come qua un vento gelido strapperà le loro vesti. Ma per loro tutto sarà sempre:
Kai! Malhad. Tutto Bene!
KAI! MALAD: TUTTO BENE!
Kai! Malad!. Tutto bene! Tutto bene!
Scorrono queste parole fuse nel sangue
ripetute ad ogni incontro,
da prima dell’incognito.
Si inerpicano sulle dune erte, sulle più molli,
valicano, a fatica, estinte valli di pietra.
Altre, sul mobile terreno, seguono il nostro andare.
Elhave – il cielo, diventato triste, ruvido, bilioso.
Ehane- il focolare, ora è casa di spine, disseccata, buco per ramarri
domani, buco di cemento per noi.
Mehari – cammello, fatto ossame, divorato da mosche
un tempo vagabondo col padrone.
Kel – la nostra gente, scorre ora come sabbia tra le dita,
via via!
Mandougu- capo carovana, camionista su sella di moleskine
briglia indurita, circolo mobile.
Taghelam – lettere di alfabeto, segni primigeni d’Afrìkia,
arsi su pietra.
Tamasheq- suoni antichi, liofilizzati, riutilizzati
per cene di gruppi.
Ci pensate azzurri,
ai piedi pelle di bianchi serpenti
in un parco giochi per adulti,
tè nel deserto,
turbanti e occhiali Rayban,
saggezza tutto incluso.
Sciamiamo, invece,
Dall’Air all’Europa
nel più grande silenzio mediatico.
Fuggiamo fumi e torce,
bucati da risate di mitraglia,
femori vaganti,
rinsecchiti, annichiliti
concentrati in cerchi di barbelès
senza più infinito.
Fuggiamo col miele di acacia in bocca,
datteri nella tasca della gandura blu,
sdrucita, strinata, stinta dal sole di Marsiglia,
Sbrindellata da coltellate di Mistral,
e pugnalata di bora friulana (1)
che ci fa gonfiare quel che resta della veste
in queste terre estranee
dove tutto dovrà essere:
Kai Malhad! Tutto bene!
